Archivio Albani

Archivio Albani

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Titolo attribuitoArchivio Albani
LivelloArchivio
ProduttoreGiovanni Francesco Albani
BiografiaGiovanni Francesco Albani nacque il 22 o il 23 luglio 1649 ad Urbino da Carlo e da Elena Mosca, nobildonna pesarese. Un ambiente familiare abbastanza dotto favorì la prima educazione dell’Albani: lo zio materno, Girolamo Mosca, fu probabilmente decisivo nell’indirizzarlo alla carriera ecclesiastica. Nell’anno 1660, per volontà paterna, egli si recò a Roma per frequentare le “pubbliche scuole” del Collegio Romano. Laureatosi nel 1668 in diritto a Urbino, continuò a studiare filosofia, teologia, patrologia, controversistica e materie giuridiche. Nel 1670 si decise ad intraprendere la carriera ecclesiastica diventando canonico di S. Lorenzo in Damaso. Nel 1677 entrò ufficialmente nella prelatura: Innocenzo XI lo nominò referendario delle due Segnature e consultore della Congregazione concistoriale, quindi ebbe il governatorato di Rieti, della Sabina e Orvieto. Nel 1683 tornò a Roma per essere nominato vicario e giudice di S. Pietro con il privilegio di mantenere il canonicato di S. Lorenzo. Dopo un breve soggiorno a Urbino per assistere il padre agonizzante, riuscì, con l’appoggio del vecchio compagno di studi Lorenzo Casoni, allora segretario alla Cifra, ad ottenere da Innocenzo XI la segretaria ai Brevi sostituendo il cardinale Slusius (3 ottobre 1687): in questa carica venne aiutato nei primi tempi da C. A. Fabroni con cui strinse una solidissima amicizia che si protrarrà per tutta la vita. Il 29 ottobre 1688 ottenne un canonicato in S. Pietro. Una volta eletto Alessandro VIII, l’ascesa in Curia dell’Albani non si arrestò: il 13 febbraio 1690 venne assunto in seconda promozione come cardinale diacono con il titolo di S. Maria in Aquiro, mutato due volte, prima in quello di S. Adriano (22 maggio 1690) e quindi in quello presbiteriale di S. Silvestro in Capite (30 marzo 1700); i 12.000 scudi che provenivano dalle cariche dell’Albani, incompatibili con il cardinalato, vennero da lui barattati con l’abbazia di S. Maria e dei SS. Martiri Giovanni e Paolo di Casamari. Sotto il pontificato di Alessandro VIII egli fu incaricato di redigere un testo di contestazione delle decisioni dell’Assemblea del clero francese del 1682 e dell’estensione delle regalie in Francia, che prese forma ufficiale nel breve di condanna Inter multiplices. Il nuovo papa Innocenzo XII lo consultò circa la composizione della Curia e l’Albani, accondiscendendo volentieri al rigorismo del papa e contribuendo a vincere le obiezioni del perplesso segretario di Stato cardinale Spada, fu l’estensore materiale della bolla Romanum decet Pontificem (22 giugno 1692) contro il nepotismo. Egli continuò a curare con i cardinali Bernardino Panciatici e Fabrizio Spada i rapporti tra la S. Sede e la Francia attirandosi la fama, non del tutto ingiustificata, di filofrancesismo; tale propensione si sarebbe manifestata soprattutto nella parte da lui avuta nel sostenere la candidatura di Filippo d’Angiò alla successione del trono di Spagna quando Carlo II fece, prima di morire, esplicita richiesta al papa per un pronunciamento segreto di Roma sulla questione. In una Roma attraversata da posizioni differenziate che variavano dalle simpatie filogianseniste e rigoriste alle suggestioni quietiste e probabiliste, l’Albani sembrò conservare in un primo momento una formale più che sostanziale disponibilità intellettuale, tipica di un funzionario romano dell’epoca che, in realtà, desiderava mantenersi il più possibile alla periferia dei grandi dibattiti religiosi per non compromettere l’iter della propria carriera. Questo atteggiamento cauto, inevitabile per chi volesse restare ai vertici del personale di Curia, venne giudicato da alcuni “volponeria” di un “raggiratore”: diffusa era l’opinione che l’amabilità caratteriale, “la giovialità nativa” e la “somma prudenza” dell’Albani si confondessero “con quell’arte propria di conformarsi col genio di chi gli parla all’uso dell’eco che sempre ripete l’altrui voci senza formare delle proposte”, tratteggiandolo come persona che “vive e lascia vivere, e quantunque il zelo li sia geniale non è però scrupoloso di semplici bagatelle bensì del massiccio degli scandali e delli pregiuditii alla Santa Sede in che totalmente preme che non seguino …” e che “ … saprà adattarsi in tutte le congiunture, e come buon marinaio darà la vela al vento che soffia” (Roma, Bibl. Nazionale, Fondo Sessoriano, 382, c. 193v). Più tardi, quando fu ulteriormente consolidata la sua sistemazione curiale, nel 1696, uscì da questo fruttuoso anonimato con l’incauto patrocinio della pubblicazione del Nodus praedestinationis del defunto cardinale C. Sfondrati, a cui fece seguito una generale ondata di polemiche verbali e scritte soprattutto provenienti dai settori agostiniani e giansenisti che ne volevano la condanna. Questa non seguì, ma la vicenda imbarazzò alquanto Innocenzo XII e lo stesso Albani, il quale ne serbò un tale rancore che sette anno dopo, pontefice, non tralascerà di perseguire Louis-Pal Du Vaucel, corrispondente abituale del Quesnel, che era stato uno dei più accesi polemisti. Un’altra occasione, assai più emblematica nel rivelare la sua sostanziale comunanza di idee con C. A. Fabroni e con gli ambienti della Compagnia di Gesù, fu il ruolo da lui sostenuto nella comminazione della condanna romana alle Maximes des saints del Fénelon, nonostante le costanti pressioni degli agenti e degli ambienti teologici favorevoli al Boussuet. Subito dopo la condanna, si affrettò a scrivere una lettera al Fénelon per istruirlo sui modi di una conveniente sottomissione che fu talmente pronta da ottenere addirittura l’elogio scritto di Innocenzo XII. Sin dalla fine del 1699 tutte le principali potenze cattoliche, di fronte al peggioramento delle condizioni di salute di Innocenzo XII, incominciarono ad attrezzarsi, in modo per la verità diseguale, per esercitare la propria egemonia nel conclave. In particolare, spiccato era l’interesse di Luigi XIV per l’elezione del nuovo pontefice che poneva in stretta relazione con la situazione di movimento che si sarebbe determinata in seguito al problema della successione spagnola e all’importanza che, in un imminente conflitto franco-imperiale, avrebbe assunto l’Italia per il mantenimento dell’egemonia europea. Una volta morto Innocenzo XII (27 settembre 1700), alla corte dell’imperatore più che elaborare una linea politica autonoma ci si riproponeva di contrastare tenacemente qualunque scelta francese; a Madrid, dove non si avevano particolari idee in proposito, si manifestò la preferenza per un papa romano demandando ogni responsabilità decisionale all’ambasciatore duca d’Uzeda. Il conclave iniziò il 9 ottobre 1700 nella più assoluta incertezza. Questo clima di torpore e di incertezza venne completamente ribaltato alla notizia della morte di Carlo II giunta a Roma nella serata del 19 novembre. A questa novità, non fu difficile per i cardinali zelanti sostenere con grande animosità l’assoluta urgenza di eleggere un uomo capace di far svolgere alla S. Sede una fruttuosa opera di mediazione tra le potenze europee e di ristabilire il prestigio papale. “Pignatellisti”, “ottobonisti”, “altierani”, “odescalchini” e i Barberini si trovarono d’accordo sull’Albani: essi contattarono i francesi che, obiettivamente isolati e palesemente impotenti innanzi alla compattezza della proposta fatta sull’Albani, acconsentirono con qualche perplessità. La sua elezione, già decisa il 20 novembre, venne pubblicata il 23 novembre 1700 ed egli assunse il nome di Clemente XI. Tuttavia, questo spirito di fiduciosa attesa che si era creato intorno al papa non tardò ad essere travolto dall’incalzare degli avvenimenti che inequivocabilmente presero una piega assai pregiudizievole per il potere temporale del Papato. Infatti, il pontificato si aprì in un contesto internazionale gravido di conflitti: la successione al trono di Spagna e il riconoscimento, da parte delle principali potenze e del papa, di Filippo V come sovrano aveva aperto una vertenza inconciliabile tra la Francia e l’Impero: la protesta dell’imperatore Leopoldo I , le sue minacce sempre più esplicite di scendere in Italia e le vaste alleanze da lui conseguentemente ricercata anche con Stati protestanti avevano naturalmente innescato da parte di Luigi XIV preparativi bellici e manovre diplomatiche di segno contrario. Corrispondere al programma politico degli zelanti di emancipazione dai condizionamenti delle potenze volle dire per Clemente XI tentare di operare nel mantenimento di un rigido neutralismo. In tutto il primo anno di regno fu impegnato nella ricerca di un ruolo pacificatore tra le nazioni cattoliche e nel vano tentativo di tenere la guerra lontano dai territori italiani. Il neutralismo però da lui proposto, che poggiava sull’argomentazione consueta di quanto fosse pericolosa la divisione delle nazioni cristiane al cospetto dei Turchi, naufragò miseramente; così, il progetto di affidare i territori contesi alla garanzia di Roma o di qualche altro principe neutrale non venne mai preso seriamente in considerazione. Dopo aver tentato con numerosissimi brevi di sensibilizzare tutta l’Europa, il papa, in preda ad un “orgasmo indicibile”, non riuscì ad impedire e nemmeno a ritardare che nel maggio 1701 le truppe imperiali e francesi si riversassero in Italia. E ancora più rivelatore di fragilità politica fu il totale fallimento nei rapporti con le potenze italiane nel proporsi come polo intorno al quale organizzare una federazione neutralista. Inevitabilmente, l’atteggiamento di Clemente XI andò progressivamente mutando in una crescente, e probabilmente sempre coltivata, propensione verso la Francia. La morte dell’imperatore Leopoldo (5 maggio 1705) e l’elezione di Giuseppe I complicarono i rapporti tra quest’ultimo e la S. Sede. Il nuovo imperatore rifiutò il tradizionale atto di sottomissione al papa, e, deciso a considerare Clemente XI come un sovrano di un piccolo ed impotente Stato, mostrò subito di condividere l’opinione del suo rappresentante a Roma, conte Lamberg, il quale era convinto che “per ben governare i preti ci voglia la borsa ed il bastone” (Ludwig von Pastor, Storia dei papi, XV, p. 29). La situazione si aggravò a partire dal 1706 in coincidenza con le sconfitte dei Francesi. Nel giugno l’arciduca Carlo d’Asburgo venne proclamato re di Spagna e la vittoria di Torino (7 settembre) del principe Eugenio di Savoia aveva consegnato praticamente tutta l’Italia settentrionale all’imperatore. Questi, pago e reso più prudente dall’intensificarsi dell’azione diplomatica francese, volle aprire una fase di trattative a Roma condotte dal marchese Prié. Clemente XI concesse molto a Carlo d’Asburgo e incredibilmente si ostinava a considerarlo un possibile “avvocato” dei diritti pontifici mentre era universalmente nota la protezione da lui accordata a Napoli all’attivissima corrente di cui erano esponenti di primo piano l’Argento, il Grimaldi, il Ricciardi e il Carovita, prolifica di scritti fortemente anticurialisti. In realtà, questo riconoscimento, privo di vantaggiose contropartite, accentuò il clima di guerra politica ed ideologica tra Roma e la Spagna regalista di Filippo. Intanto, nemmeno i rapporti con l’imperatore si rasserenarono: il nipote Annibale Albani venne inviato nel 1709 a Vienna dove, incaricato di difendere ad oltranza i diritti feudali del papa sul ducato di Parma e Piacenza e sul Regno di Napoli, ottenne soltanto un formale riconoscimento sul possesso pontificio di Comacchio senza che ne avvenisse la restituzione; quindi, si recò a Dresda per ottenere l’abiura dal luteranesimo del principe ereditario Federico Augusto di Sassonia. La nuova situazione determinata dalla morte di Giuseppe I (17 aprile 1711) e dall’approssimarsi della conclusione della guerra di successione, fu un’ulteriore riconferma dell’impotenza della S. Sede. L’eccitabile nipote non venne neanche ammesso alla Dieta di Francoforte e la sua missione risultò irrilevante e mortificante. Quando si aprì la stagione dei grandi trattati di pace, i segni di decadimento divennero ancora più manifesti. Il pontefice, il 21 gennaio 1715, in un’allocuzione concistoriale che si può considerare come un bilancio dei fallimenti politici del suo pontificato, illustrò molto sinteticamente e onestamente l’esito della missione diplomatica. Clemente XI, consapevolmente legato ad una visione universalistica del Papato che gli proveniva dalla sua formazione curiale, ritenne di riscattare la caduta del suo prestigio internazionale riproponendosi come inevitabile animatore di una lega cristiana contro il Turco. Credette così di cogliere l’occasione politica e religiosa su cui rifondare un ruolo centrale della S. Sede in grado di contribuire al superamento delle divisioni tra le potenze cattoliche. Ma l’intenso lavorio diplomatico risultò sproporzionato agli esigui risultati raggiunti ed evidenziò maggiormente la profondità della crisi: i paesi cattolici europei fecero della difesa contro il Turco uno strumento per aumentare le loro pretese e per consolidare la loro politica anticuriale. Se dal punto di vista dell’esercizio dell’autorità temporale il pontificato fu un susseguirsi di incertezze e fallimenti, ben altro fu il peso dell’azione papale nella sfera religiosa e dogmatica. L’avvento di papa Albani interruppe il trentennio di relativo assopimento delle controversie dottrinarie garantito dalla “pace della Chiesa” di Clemente XI (1669) e segnò l’inizio di un progressivo irrigidimento della Curia romana nel perseguire i giansenisti. Il papa, la cui infallibilità veniva messa apertamente in discussione dall’agguerrita pattuglia di teologi giansenisti, reagì con una ben più semplice serie di minacciosi brevi di richiamo all’ordine e al rispetto della S. Sede, unica depositaria delle verità dogmatiche. Fermamente, perseverò nel ricusare ogni dialogo con i disobbedienti: il 27 giugno 1716 riaffermò in un concistorio il valore del supremo magistero papale. Coerentemente al personaggio sin qui delineato, l’interiore imperativo di far valere l’autorità pontificia si esplicitò anche e soprattutto nell’impegno profuso nella “dilatazione del culto” e nell’evangelizzazione dei popoli: una visione assai centralizzata e planetaria dell’azione missionaria improntò tutti gli sforzi operati da Clemente XI nel sostenere la sempre più potente Congregazione di Propaganda Fide. Negli anni del suo pontificato l’organizzazione delle missioni conobbe momenti di grande slancio a cui non corrispose un’adeguata diffusione del cristianesimo, che anzi segnò una battuta d’arresto. Nella politica interna allo Stato della Chiesa tentò di imitare la severa linea di Innocenzo XII prestando particolare attenzione al comportamento morale e al rispetto della residenza di tutti i prelati: la pluriennale presenza a corte come predicatore apostolico di F. M. Casini, relatore implacabile degli aspetti più sconvenienti e criticabili del clero e dell’amministrazione del dominio temporale della Chiesa, lo confermò nell’interiore desiderio di rigore. Le missioni popolari e le conversioni divennero per lui una sorta di ossessione: schiere di “pii operai” furono chiamati da Napoli a Roma “per insegnare a tutti la via della salute” e nel 1703 finanziò egli stesso una missione popolare per i “villici” dell’agro romano che rivelò la “rozzezza estrema scoperta nell’anime di quest’infelici a molti de’ quali giungeva nuovo fino il mistero della Trinità et Incarnazione” (J. Coste, Missioni nell’Agro romano nella primavera del 1703, in Ricerche per la storia religiosa di Roma, II (1978), p. 188). Si distinse nell’assistenza alle popolazioni provate da diverse calamità: per lo straripamento del Tevere (1702), per il terremoto a Roma e nel Lazio (1703), per la siccità (1706), nelle epidemie influenzali gravi (1709), per la peste bovina (1713) e per la carestia (1718). Prestò solerti cure alla sorte delle zitelle, delle “zoccolette” e dei giovani reclusi per cui fece restaurare il vecchio ospizio di S. Michele per renderlo un efficiente riformatorio correzionale a struttura unicellulare. In questo periodo il progressivo indebolimento del Papato non mancò di ripercuotersi nella vita interna dello Stato pontificio che conobbe un serio deperimento strutturale: seppure falliti nella loro applicazione concreta, vennero compiuti interventi di politica economica di una certa modernità. Sotto Clemente XI il bilancio dello Stato (secondo il Pastor, nel 1718, le entrate della Camera apostolica e della Dataria rivelavano una diminuzione di mezzo milione scudi) e il tono economico generale entrarono in una fase critica che si ripercuoterà seriamente nei pontificati successivi. Degna senz’altro di menzione fu invece la sua politica culturale. La sua mai accantonata passione per l’erudizione determinò la fondazione di un’importante sezione orientale della Biblioteca Vaticana con il reperimento di numerosi e preziosi manoscritti; la sua sensibilità per la salvaguardia del patrimonio artistico-archeologico di Roma favorì l’azione benemerita di Francesco Bianchini e di Marcantonio Boldetti. Inoltre, la sua ansia di “rinfrescare e conservare” i fasti di una centralità spirituale di Roma si esplicitò, simbolicamente ed effettivamente, in un mecenatismo costituito più che da innovazioni da scavi archeologici e da restauri di chiese e monumenti di cui furono principali protagonisti i Fontana e Carlo Maratta (famosi restano i restauri delle stanze di Raffaello, del Pantheon, della basilica di S. Clemente e la scoperta e l’erezione della colonna antonina). Fu particolarmente grato alla sua città, Urbino: qui, ignorando ogni sorta di rigore, fu generosissimo nelle opere pubbliche, nella definizione di innumerevoli privilegi all’università locale e alla cancellazione dei debiti. Inoltre, continuando l’opera di Innocenzo XII, favorì l’attività di riordino dell’università di Roma intrapresa dal cardinale Spinola che, sostenuto dal Gravina, giunse ad un’effettiva razionalizzazione della didattica e del numero dei professori di cui si curò maggiormente il livello professionale. In questo rilancio della Sapienza furono favorite le discipline giuridiche, prima fra tutte il diritto canonico, in conformità all’esigenza di formare legisti preparati in grado di contrastare validamente le innumerevoli obiezioni giurisdizionaliste. Infine, nel campo delle lettere intervenne nel 1711 a favore del Crescimbeni per mantenere fortemente gerarchizzata e curiale la struttura dell’Arcadia. Cagionevole di salute sin dal 1710, Clemente XI morì a Roma il 19 marzo 1721.

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